Il destino nel nome
Vivo a Vigevano, una città di quasi 60.000 abitanti in cui circolano più SUV che utilitarie, ed in cui non c’è una sala cinematografica degna di questo nome. Mi spiego meglio: a Vigevano non c’è un cinema, perché sono tutti chiusi. Su sessantamila abitanti sembra che a nessuno interessi il cinema, non solo quello impegnato, ma neppure le commedie di pessimo gusto che ci propinano a Natale, immancabili come un terremoto in Bangladesh, che colpisce con una furia cieca i più poveri.
In questa desolazione, che ha visto tutte le sale cinematografiche chiudere i battenti negli ultimi quindici anni, brilla l’impegno dell’associazione “La Barriera”, che a fatica propone ogni anno — in una vecchia sala cinematografica parrocchiale — un programma di spettacoli di tutto rispetto a prezzi estremamente convenienti. Certo, le poltrone non sono comode come quelle dei multisala cui siamo soliti, ma dove potrei vedere altrimenti un film come “Il destino nel nome”?
“Il destino nel nome” (originale: “The namesake“) è un film semplice, che racconta la storia di due giovani sposi Indiani emigrati negli anni ‘70 negli Stati Uniti. La vita riserverà loro molte avversità, non ultime quelle relative all’adattamento ad un clima ed una società, quella di New York, completamente diversa da quella nella quale erano vissuti fino ad allora.
È anche la storia dei lori figli, nati e cresciuti nella Grade Mela, che hanno ereditato una parte dei valori culturali dei genitori, ma sono più integrati nella realtà statunitense, e si sentono spaesati quando, per un lutto, la famiglia è costretta a tornare in India.
Ed è in particolare la storia del figlio primogenito, “Gogol”, un nome buffo datogli in onore dello scrittore russo Nikolai Gogol, di cui il padre è grande appassionato. Questo nome, portato da sempre con una certa insofferenza dal ragazzo, è la cifra del suo rapporto di giovane americano con la cultura da cui proviene ed in cui, si scoprirà alla fine, affonda le proprie radici, molto più profondamente di quanto egli stesso non creda.
Non voglio darvi altri particolari sulla trama, che è peraltro molto lineare: se siete curiosi potete trovare decine di recensioni in rete, in Italiano ed Inglese, non sarà certo io a rovinarvi la sorpresa.
Il film è davvero bello e merita di essere visto per due ordini di motivi. Tecnicamente è ben girato, la regista Mira Nair ha colto magistralmente con la macchina da presa le diverse emozioni dei protagonisti. La fotografia è splendida, e non solo negli esterni girati in India, ma anche e soprattutto nei ritratti, nei primi piani e nelle “istantanee” di vita metropolitana. Gli attori sono perfettamente calati nel proprio ruolo, specialmente Tabu (splendida!), che interpreta la protagonista Ashima Ganguli, Irfan Khan, suo marito, e Kal Penn che interpreta Gogol. Meno convincente, ma davvero bellissima, Zuleikha Robinson, che interpreta Moushumi Mazoomdar, moglie di Gogol.
Al di là degli aspetti tecnici quello che colpisce sono le emozioni che il film suscita. La famiglia attraversa momenti di gioia e di estrema amarezza, di malinconia, di rabbia, di passione e di intimità, nel corso di una storia che si dipana per quasi venticinque anni. Alla fine rimane la sensazione di aver assistito ad una storia che probabilmente è molto più comune di quanto non si possa credere.
La scena che più ricordo: quando i due sposi vengono presentati l’uno all’altra, i genitori di lui precisano che “fa il dottorato di ricerca a New York in fibre ottiche”, mentre quelli di lei sottolineano che loro figlia conosce la poesia inglese e le fanno recitare “I Wandered Lonely as a Cloud” di William Wordsworth, che lei declama in uno stentato Inglese che fa sorridere. Quello che mi ha colpito è stata la semplicità con cui due famiglie povere mostrano con orgoglio ciò che hanno di più prezioso: la cultura dei propri figli.
Altro che SUV…